FERMA ha recentemente pubblicato la prima guida specificatamente pensata per fornire ai Risk Manager di tutta Europa un prezioso contributo utile a coniugare il framework metodologico dell’ERM alle istanze sempre più cogenti sollevate dal concetto e dagli obiettivi, anche politici, della sostenibilità.
Stando a quanto riportato sulla pagina dedicata: “FERMA has taken examples of good practice of sustainability risk management from leading risk managers to produce the guide.” La guida si staglia sullo sfondo delle vaste politiche internazionali ed europee (quali lo UN Sustainable Development Goals, l’European Green Deal l’European Climate Law
et al.) le quali mirano a obiettivi precisi per favorire processi di transizione tecnologica e culturale in un’ottica di sempre maggiore sostenibilità climatica, sociale ed economica. L’idea è quella di integrare e tradurre in modo sempre più rilevante la natura di queste iniziative — e i relativi radicali cambiamenti normativi, economici e culturali-comportamentali che ne deriveranno — con la cultura del Risk Management. In che modo dunque portare questa agenda e iniziare a mappare, analizzare e trasferire all’interno del percorso strategico e operativo aziendale la natura di questi rischi e/o derivanti opportunità?
La sfida è indubbiamente aperta. E si tratta di una sfida a tutta campo, in quanto parlare di sostenibilità, termine più che mai esteso e assolutamente fluido e declinabile con assoluta elasticità da un punto di vista semantico, significa prima di tutto comprenderne la portata micro e macro, di breve e lungo periodo, nonché comprendere le necessità di favorire la circolazione di questa cultura partendo sì da approcci top-down — da un punto di vista del necessario endorsement da parte della governance — ma anche bottom-up, abilitando iniziative dal basso e orizzontali. Significa inoltre saper tradurre la rilevanza di obiettivi quali, ad esempio, la riduzione dell’impatto ambientale di un intero continente — obiettivo che per sua natura tende a risultare di per sé meno sentito, in quanto in capo alla società in senso lato e non a un singolo/a individuo/azienda —, oppure la comprensione dell’importanza di Intangible Asset — quali la stabilità psicologica e il benessere dei propri collaboratori — con istanze di natura più prettamente economica e finanziaria. Significa dunque saper vedere oltre la coltre del dato tangibile — maggiormente quantificabile e palmare — e intravedere il rischio di prassi e pratiche che negli anni potrebbero creare scossoni alla business continuity e far subire contraccolpi notevoli all’azienda: sanzioni o business interruption derivanti da una scarsa previsione dei parametri richiesti, ad esempio, in materia di emissioni; defezione o perdita di entusiasmo (e dunque impegno partecipativo) da parte di key people per il reiterarsi di ritmi di lavoro non sostenibili per periodi di tempo prolungati; sottostima di danni reputazioni derivanti da una scarsa considerazione delle condizioni di lavoro che potrebbero colpire dipendenti operanti all’estero in aziende direttamente legate al nostro sistema di approvvigionamento; e via discorrendo. Negli ultimi anni, la società ha attraversato un processo di forte sensibilizzazione circa tutte queste tematiche. Alla luce dei livelli sempre più elevati di awareness, e dei sempre più stringenti obiettivi delle istituzioni e della società civile, tutto questo potrebbe, nel lungo periodo ma non solo, rendere la nostra azienda e/o la nostra società, giocando con le composizioni lessicali di Nassim Taleb, “antiresiliente”.
Sempre nell’ottica di questa sfida, risulta di particolare interesse notare le tre parole scelte per il titolo della guida: People, Planet & Performance. Se le prime due, come parzialmente esemplificato sopra, denotano le tematiche che in senso lato rientrano nel perimetro ESG (Environmental, Social and Governance), la terza sembra evidenziare quella che risulta essere la sfida centrale. Domande quali “in che modo possiamo mantenere performanti e competitive le nostre aziende investendo risorse notevoli in queste direzioni?” o “come posso trattare questi rischi senza dare spazio ad altre potenziali esposizioni?” risultano più che naturali. Oltremodo risultano naturali quando il contesto si fa sempre più globale, facendo si che la gara sia da affrontare con mercati i quali possono vantare regole e obiettivi (es. la riduzione delle emissioni) molto meno stringenti. In questo senso, esempi come la Cina sono particolarmente rilevanti, in quanto rappresentano mercati concorrenziali (nonché fondamentali per le supply chain occidentali) sempre più in espansione e ormai contendentisi la leadership (in prospettiva), ma con notevoli differenze in termini di attenzione alle emissioni. Nonostante i diversi proclami, ad es., le emissioni carboniche cinesi, già ora rappresentanti il 28% mondiale, dovrebbero ancora aumentare fino al 2030. E in modo similare il discorso può valere anche relativamente alle condizioni dei lavoratori, allo stato dei diritti umani e via discorrendo. Esemplare risulta il caso recente di H&M, la quale, nel tentativo di prevedere un eventuale effetto negativo a livello reputazionale derivante dall’approvvigionamento di prodotti nello Xinjiang (derivanti dallo sfruttamento degli uiguri detenuti ai “lavori forzati”), ha deciso di interrompere l’acquisto e annunciare questa scelta pubblicamente. Questa decisione, ha però portato a un prezzo altissimo da pagare nello stesso mercato cinese, il quale ha reagito all’”offensiva” lanciando una vera e propria campagna di boicottaggio del brand sulle piattaforme commerciali cinesi.
La sfida, dunque, starà proprio nell’incalzare questi rischi, nella loro natura eterogenea e, a volte, di difficile trattamento, e renderli delle opportunità. Trattarli, mitigarli e considerarli sempre più parte una variabile rilevante per un management capace di rivedere i paradigmi che hanno caratterizzato la cultura aziendale per diverse decadi, favorendo processi di change management attenti non soltanto ai semplici proclami (vedasi le varie attività di Greenwashing o beneficienza reputazionale), ma atti a ridisegnare il rapporto tra persone (con tutte le istanze psicologiche, emotive e progettuali che le caratterizzano) e ambiente lavorativo, tra performance e rispetto dell’ambiente, tra profitto e creazione di un contesto locale e globale sempre più consapevole e maturo.