La parola agli Under 30 | I rischi connessi all’attività dell’uomo nello spazio

01/12/2021 Autore: Roberto Berva

la-parola-agli-under-30-i-rischi-connessi-all-attivita-dell-uomo-nello-spazio

Il socio Anra Under 30 Roberto Berva ci fornisce un estratto del dossier giornalistico da lui realizzato nel recente passato sui rischi aerospaziali . L’argomento è tornato di grande attualità in queste settimane e impone riflessioni sullo specifico profilo di rischio. A questo proposito riproponiamo l’interessante colloquio del giovane risk manager con Paolo Nespoli.

La gestione della sicurezza di una missione completa la nostra analisi sul tema dei rischi aerospaziali con l’interessante testimonianza dell’interazione tra la direzione di volo a terra e gli astronauti.

Paolo Nespoli, astronauta italiano che ha partecipato alle più significative missioni spaziali internazionali ci racconta la sua esperienza.

Nella preparazione di una missione spaziale quali tempi e procedure sono dedicate alla gestione dei rischi connessi?

Le attività spaziali sono normate da rigorose regole, chiamate flight rules, i cui protocolli, studiati e collaudati in decenni secondo standard di sicurezza fisica e comportamentale sono stati stabiliti dalla NASA. Vi sono poi le specificità della singola missione che può avere obiettivi peculiari di natura scientifica, tecnologica ed educativa.

Il rischio è ogni imprevisto o incertezza che si frappone al raggiungimento degli obiettivi della missione.

Si pensi che la preparazione di una missione comporta circa due anni di lavoro propedeutico, un intero anno è dedicato a due specifiche fasi, in cui si concentrano le maggiori criticità: la fase di lancio, sino al raggiungimento orbitale e il rientro sulla Terra.

Le tempistiche sono di circa sei ore per raggiungere la stazione spaziale in orbita e di circa quattro per tornare: in tale lasso di tempo vi sono le maggiori complessità. La permanenza in orbita nella stazione spaziale è la fase più normalizzata e stabile.

Molte pratiche e procedure preventive sono il frutto dell’esperienza derivante dalla storia dei programmi spaziali: ad esempio un ambiente in cui vi è solo ossigeno potrebbe apparire
fisiologicamente più comodo, ma crea complicazioni perché può aumentare il rischio di incendi, come accadde durante la missione Apollo 1, dove morirono tre astronauti. Ovviamente al variare delle missioni ci saranno preparazioni e protocolli diversi: una missione sulla Stazione Spaziale Internazionale avrà specifiche diverse da una missione sulla Luna o da una futura missione su Marte.

Le procedure riguardanti la Stazione Spaziale Internazionale sono ormai codificate, essendo attiva da diciotto anni, e abitata ininterrottamente da sedici.

Come si compone e collabora il team di risk management della missione?

Gli astronauti a bordo sono il terminale di un’organizzazione complessa coordinata dalla Terra da un direttore di volo e da oltre cento tecnici che monitorano costantemente parametri e tecnologie di bordo, il cosiddetto mission control center. Le responsabilità sono frammentate con specifici ruoli: ogni soggetto è coordinato dal direttore di volo e l’astronauta deve interagire con le apparecchiature di bordo in coerenza con le indicazioni ricevute dal team a terra. Il direttore di volo risponde del funzionamento della stazione spaziale e inoltre dell’ottenimento degli obbiettivi della missione. Noi astronauti abbiamo contatto diretto con il direttore di volo.

Il mission control center controlla ogni parametro e nel caso in cui ci sia un malfunzionamento lo comunica al direttore di volo che ha le competenze per comprendere quali possono essere le interazioni che il guasto può causare tra i vari sistemi.

Si pensi che tutti gli elementi considerati critici e gli equipaggiamenti essenziali sono coperti dalla cosiddetta triplice ridondanza: ovvero da altri due apparati tecnologici di riserva, oltre a quello primario, in grado di garantire la medesima funzione in caso di guasto o danneggiamento.

Gran parte dei sistemi di mantenimento della stazione sono originati dai sistemi dei sottomarini, dove è necessario mantenere condizioni adatte alla vita.

In caso di particolari imprevisti o criticità come si interfaccia il team a terra con quello in volo?

Esistono situazioni che non possono essere ipotizzate ex ante, in tali casi il direttore di volo può applicare una deroga, waiver, alle flight rules e decidere manovre particolari per minimizzare gli impatti di un imprevisto.

Ci può fare un esempio?

Durante una delle missioni spaziali a cui ho partecipato abbiamo dovuto provvedere alla riparazione di un pannello solare della dimensione di circa quarantacinque metri per cinque, facente parte di un blocco di quattro pannelli, due per lato.

Con il direttore di volo si è convenuta un’attività extraveicolare, ovvero una passeggiata nello spazio per provvedere a una riparazione tecnologica complessa in condizioni di particolare rischio, già solo per il fatto che si dovesse riparare un apparato ad alta tensione senza poter disattivarne l’elettrificazione. Le missioni extraveicolari possono durare anche molte ore e l’astronauta deve seguire pedissequamente le istruzioni che riceve da terra: è a tutti gli effetti un attore che deve rispettare le indicazione del proprio regista.

A proposito di attività extraveicolari è interessante notare come le tute spaziali siano a loro volta delle navicelle “portatili“ con le medesime caratteristiche e ridondanze di sicurezza a tutela dell’astronauta. Le tute utilizzate per le missioni extraveicolari sono le discendenti dirette di quelle usate per lo sbarco lunare, migliorate durante l’esperienza degli Shuttle, forniscono l’ossigeno e consentono un corretto mantenimento della pressione, proteggono dalle radiazioni e permettono una termoregolazione costante. La tuta ha inoltre un sistema che consente l’erogazione di ossigeno anche in caso di falla, questo sistema di emergenza permette circa venti minuti di tempo utile per ritornare all’interno della stazione. Nel caso dello Shuttle la distanza dell’astronauta dalla zona di rientro era di trenta metri, nel caso invece di questo pannello solare presente sulla Stazione Spaziale Internazionale era di addirittura centocinquanta metri, inoltre l’astronauta era legato a un braccio meccanico, nel caso in cui vi fossero state delle complicazione il recupero dell’astronauta sarebbe stato molto complesso.

Per ottenere una qualifica valida per le missione extraveicolari esiste un addestramento che viene svolto in piscina: si simula il recupero di un astronauta impossibilitato nella zona più lontana entro un tempo massimo stabilito.

Tornando al caso citato il problema è stato infine risolto in un contesto di particolare rischio che in condizioni normali non sarebbe mai stato autorizzato, soluzione applicata per evitare peggiori conseguenze alla stazione spaziale e a chi la abitava. C’è un albero decisionale rigoroso e altamente razionale: se si assume un rischio è solo per mediare o ridurre una possibile conseguenza peggiore.

Il tema dei rifiuti spaziali risulta di grande attualità, in futuro potrebbero rendere inservibili alcune orbite, qual è la sua osservazione diretta sul tema?

È un tema di pollution similare alla discussione sulla contaminazione dell’habitat terrestre: nello spazio vi sono detriti naturali, ad esempio i meteoriti e detriti artificiali che sono l’esito della consunzione dei satelliti lanciati in orbita.

Ogni giorno tonnellate di materiale rientrano nell’atmosfera, una parte brucia e si distrugge, un’altra arriva sulla Terra: ciò che arriva sulla Terra è in parte naturale e deriva dalla formazione ed evoluzione del cosmo, ma bisogna considerare anche i detriti artificiali. Soprattutto nei primi anni dell’esplorazione spaziale non si teneva conto che gli oggetti posizionati in orbita potessero in seguito diventare dei debris e quindi inquinare lo spazio. A questo si aggiungono anche eventi voluti, anni fa i cinesi dimostrarono di essere in grado di colpire i satelliti in orbita e ne distrussero uno generando un’ingente quantità di frammenti.

Sul tema vi sono due teorie dominanti: una che minimizza la problematica, presupponendo un lento rientro terrestre degli oggetti accumulati nelle orbite più basse, l’altra che prevede possibili effetti di impatti a catena e una successiva polverizzazione di materiale artificiale in orbita, tale da rendere inservibili le orbite più basse.

Oggi c’è un’attenzione e consapevolezza maggiore sul tema grazie anche a nuove regolamentazioni che imporranno di fare rientrare i satelliti lanciati in orbita bassa al termine della loro vita operativa.

Attualmente vi sono sistemi di prevenzione che riducono fortemente il rischio di rilascio di detriti nello spazio: le tecnologie italiane sono molto evolute e apprezzate a livello internazionale.

Quali sono le vostre procedure di emergenza, esiste il rischio di impatto contro un detrito?

Viaggiando sullo Shuttle nel corso di quindici giorni ho visto almeno due impatti, si tratta di impatti molto piccoli; tuttavia anni fa ci fu un impatto contro un detrito, probabilmente una scaglia di vernice delle dimensioni di un paio di granelli di sale, che riuscì a perforare buona parte del vetro corazzato. Guardando con attenzione fuori dalla stazione spaziale si nota che è punteggiata da centinaia di forellini. Non a caso i moduli abitati della stazione sono coperti da una schermatura, molto simile a quelle utilizzate nei carri armati, per la protezione dai micrometeoriti.

La Stazione Spaziale Internazionale ha ottimi sistemi di protezione, nel corso di diciotto anni non vi è mai stata una penetrazione da parte di un detrito. Invece nel caso delle missioni
all’esterno non vi è alcuna protezione poiché la tuta utilizzata non fornisce alcuna difesa contro i detriti.

Le procedure principali di emergenza sono tre: fuoco sulla stazione, contaminazione dell’aria e perdita di aria per impatto con un micrometeorite.

Siamo addestrati per misurare subito a quanto ammonta la perdita di aria e quanto è il tempo residuo alla pressione minima, in questa situazione bisogna agire velocemente e risolvere il problema isolando il modulo danneggiato o in caso estremo chiudersi dentro la navicella di rientro e abbandonare la stazione.

La possibilità di impattare contro un detrito spaziale di una certa importanza capace di danneggiare la stazione è comunque molto bassa.